Monday MIxtape: David Rifkind e il concetto di arte tra conoscenza e humor secondo George Deem.

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Il Patricia and Phillip Frost Art Museum ha iniziato a shakerare le sessioni del Monday Mixtape per la stagione 2018-2019: un incontro a cadenza mensile in cui sono selezionate e discusse opere d’arte con un tema dominante di interesse, architettonico o sociale discusso da docenti universitari specializzati. A partire con la sinfonia è stato il Dott. David Rifkind.

Professore associato di architettura presso la FIU e architetto professionista, Rifkind si è laureato nel programma di storia e teoria dell’architettura alla McGill University di Montreal prima di conseguire il master al Boston Architectural College. Ha scritto numerosi libri e importanti pubblicazioni tra le quali un articolo sull’urbanesimo coloniale italiano in Etiopia comparso sul Journal of the Society of Architectural Historians. La scommessa della vita per il Dott. Rifkind, rimane tuttavia la progettazione della sua casa, la Tin Box, casa di latta, a South Beach: progettata con la moglie, anche lei docente alla FIU, la Tin Box è una casa altamente sostenibile, con struttura in acciaio, in gran parte prefabbricata e per lo più riciclata, a energia solare, che produce acqua potabile e garantisce l’habitat perfetto per la fauna locale. La casa, i cui avanzamenti dei lavori sono monitorati e documentati sul blog tinbox, non è altro che la rappresentazione pratica dei concetti impartiti a lezione da entrambe gli insegnanti.

Partendo da alcune opere della mostra Connettività: Selezione dalla collezione del Frost Art Museum, che celebra i tesori della collezione nei 40 anni della sua fondazione e include oggetti raramente visti e conservati nel caveau, Rifkind ha esposto al pubblico due opere di George Deem che definiscono come la nozione di luogo serva da catalizzatore creativo per uno degli artisti che, partendo dall’emulazione dei grandi artisti del passato, ne ha fatto oggetto della sua stessa forma d’arte con arguzia e ironia.  

Figlio di contadini dell’Indiana dai quali è nato nel 1932, George Deem, di origine cattolica, si rende conto che frequentare le chiese è un ottimo mezzo per conoscere l’arte, quindi sostenuto  dal cugino, monaco benedettino che ne riconosce i prematuri talenti, viene mandato a studiare alla School of the Art Institute di Chicago, allora come oggi un’ottima istituzione. Si laurea di ritorno dall’esercito in Germania, studiando con Paul Wieghardt già insegnante di altri importanti artisti americani del dopoguerra, come Leon Golub, Robert Indiana e Claes Oldenburg. In Germania durante i suoi due anni di servizio nell’esercito americano al quale prende parte perchè chiamato al fronte, ha modo di vivere ad Heidelberg e apprezzarne lo stile barocco e rococò, riuscendo fra l’altro a visitare molti dei principali centri d’arte d’Europa, tra cui Firenze, Venezia, Parigi e Londra. 

Prima di andare a vivere definitivamente nel Flatiron District a New York torna in Europa e in Italia nello specifico, con l’intenzione di studiare i grandi classici del passato ed in particolare il periodo rinascimentale con i suoi perfezionamenti artistici: l’uso della pittura ad olio e della prospettiva a un punto. La grandezza di Deem, scomparso a New York, per un tumore ai polmoni nel 2008, sta nell’aver sviluppato il concetto di imitazione dei classici in un modo molto particolare e personale.

Vista inizialmente come forma di studio e di omaggio, l’imitazione dei classici diventa con Deem terreno fertile attraverso il quale dare origine alla propria forma d’arte che, come definisce il critico d’arte Steve Starger in Art New England: “Gli consente di tirare fuori quello che sembra un atto audace di ego: immagina di avere la faccia tosta di pensare che può “rifare” Da Vinci, Caravaggio, Thomas Cole, o Vermeer, pensando, e dimostrando poi, di avere sia la tecnica che l’immaginazione per farlo”. 

I suoi lavori cominciano in parallelo con l’inizio del suo lavoro al Metropolitan Museum of Art con le “immagini calligrafiche di scritte corsive” come lui stesso le definisce, che sembrano linee di una vecchia scrittura illeggibile, per poi passare all’arte figurativa con quelle che invece chiama “Composizioni con illustrazioni”. Deem vuole che la sua arte sia immediatamente identificata, pertanto comincia a riprodurre immagini di artisti famosi: Chardin, Goya, Raffaello, Ruscha, Watteau e tanti, tanti altri ancora, con un occhio di riguardo nei confronti di Vermeer, per il quale scriverà anche il libro “Come dipingere un Vermeer: la storia dell’arte di un pittore ”. 

Deem ha ricostruito e reinterpretato l’arte del passato con intuizione e originalità al punto da non essere etichettato in una sola corrente artistica. Il critico d’arte David Dearinger, definendolo artista pop, ha detto di lui: “Le scatole di minestra stanno a Warhol quanto la storia dell’arte sta a Deem” È stato poi configurato come artista realista, figurativo, decostruzionista e post-modernista, senza però rientrare mai perfettamente in nessuna delle categorie topiche o stilistiche  menzionate perchè la sua forma d’arte è una sorta di citazione, parafrasi, collage, montaggio e appropriazione, o forse tutte le cose messe insieme fino al punto di rendere nuovamente originale un classico dell’arte del 1400, per la sola scansione temporale, non più originale per definizione. Deem è particolarmente affascinato dall’arte di Veermer e ne riproduce le opere del quale arriverà a rimuovere i personaggi come in The Art of Painting del 2002, a sostituire i personaggi con figure di altri artisti di altre epoche come fa con John Singer Sargent in Sargent Vermeer del 2008, o a non farli comparire del tutto concentrandosi su un singolo pezzo della tela come ad esempio la sedia in Red Chair del 2002 fino a diventare addirittura irriverente in alcune opere da lui adorate, nelle quali omette un pezzo di Vermeer, lasciando una figura senza testa e chiamando la sua copia “Three-Quarter Vermeer”.

  

 

Le opere proposte da Rifkind, di proprietà del museo, ed esposte solo in occasione dell’incontro di stasera perchè periodicamente ruotate, appartengono alla serie “La Scuola di” e sono La Nuova Scuola di Atene del 1979 e La Scuola di Atene II del 1987. Con la serie “Scuola di” Deem rende omaggio ad un artista importante, in questo caso Raffaello, ma ce ne sono molti altri,  e lo colloca ambientando la scena in una scuola americana come succede in La Scuola di Atene del 1987 in cui l’immagine centrale è fedelmente riprodotta mentre Raffaello ed altri soggetti sono stati tolti per inserire file di scrivanie, lavagne in ghisa e legno e mele sparse, nei quali sembra essere seduto l’artista stesso, che racconta nei suoi scritti “Questo sono io, nella mia aula scolastica…Posso persino dirti dove mi sono seduto, è così vicino alla realtà storica … Era in questa scuola che la poesia, la magia, il sesso …”. 

  

 

 

Antecedente è invece la Nuova Scuola di Atene, del 1979, in cui Deem rappresenta la scena principe utilizzando il pennino e l’inchiostro seppia con i quali disegna un contorno piuttosto grossolano dell’opera in modo da farlo volutamente simile e non uguale all’originale e mettendo in evidenza due lottatori di sumo in giallo e blu, di spalle, che osservano la scena. Nell’immagine, in cui è presente anche la traduzione in giapponese del titolo, Deem utilizza un’ironia tagliente in entrambe le direzioni: da un lato si vede un Raffaello che non c’è, e dall’altro un effetto simile a Raffaello che è tutto li, in quell’opera e mette in risalto la soddisfazione che si prova quando si riesce a cogliere qualche frammento di conoscenza, con una nuova prospettiva nel vedere le cose. Il genio di Deem sta nel confrontarci con i due significati della parola “scuola” e di usare entrambi i significati nel rendere omaggio ai maestri che ammira. L’utilizzo dei patch di prova, i bordi irregolari o grossolanamente eseguiti sono molto frequenti nelle opere di Deem e sono frutto del suo concetto di visione-revisione dalla storia dell’arte che evoca e non copia, e dalla straordinaria abilità artistica che impiega. Il suo occhio e la sua mano mediano sempre – e sono mediati – fra i complessi momenti della memoria storica dell’arte classica e la sua arte personale, aggiungendo un ché di fresco per sottrazione degli elementi e/o aggiunta di altri. Deem nelle sue opere esplora la struttura artistica sottostante, la prospettiva e il concetto di spazio, modellandone le immagini che splendidamente collegano il passato e il presente presentandoci un contesto familiare solo in apparenza come un deja-vu con l’effetto shock imprevisto.

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