Le opere a carboncino di Gonzalo Fuenmayor fra realismo magico e stile McOndo.

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Se il realismo magico di Gabriel Garcia Marquez, premio Nobel per la letteratura nel ’82 con Cent’anni di solitudine, ha rilanciato l’interesse per la letteratura latino-americana, Gonzalo Fuenmayor, suo conterraneo, attraverso la sua arte a metà fra il realismo magico e lo stile McOndo, ha sollevato problematiche relative allo sfruttamento delle popolazioni latino americane nella storia colombiana, e dell’America latina in generale. Con le sue opere offre la capacità di insinuare dubbi con una forma di rappresentazione surrealistica che spinge lo spettatore ad osservare il mondo con occhi diversi, a guardare oltre l’apparenza, il più delle volte banale, ma dietro la quale esiste una realtà più complessa e difficile che l’utilizzo del carboncino sa mettere a fuoco più di ogni altro mezzo.

Nato in Colombia nel 1977 si trasferisce negli Stati Uniti, laureandosi nel 2000 alla School of Visual Arts di New York e consegue in un secondo momento il Master in Fine Art presso la School of the Museum of Fine Arts di Boston nel 2004. Durante gli anni del master grazie ai suoi brillanti risultati universitari vince il prestigioso Travelling Fellowship: una borsa di studio istituita nel 1894 da James William Paige. La scholarship consente ai pochi ragazzi selezionati in base ai meriti, di fare un viaggio interamente pagato, in una zona scelta dallo studente in base al proprio piano di studi per approfondire le tematiche trattate. La scelta di Fuenmayor è stata Leticia, città colombiana nel cuore dell’Amazonia.

Gonzalo Fuenmayor oltre ad essere un artista rinomato è professore presso l’Università di Miami (UM) dove, visto il suo talento, insegna disegno e prospettiva presso la facoltà di  Architettura.

Contravvenendo alla comune convinzione che l’arte latino americana è un arte molto colorata, Gonzalo lavora quasi esclusivamente in charcoal, carboncino. Il motivo di questa scelta è dovuta al fatto che secondo l’artista l’irruenza dei colori tende a distogliere l’attenzione dell’osservatore dal significato essenziale dell’opera che passa così in secondo piano. I colori spingono l’osservatore a concentrarsi su elementi che fanno da corollario, mentre l’uso del carboncino fatto in un gioco di bianco e nero concentra l’attenzione sul significato dell’opera invitando lo spettatore ad indagarne il senso.

Per Gonzalo il bianco e il nero sono indispensabili l’uno all’altro, si completano esaltando l’intensità dell’opera che ne esce in tutta la sua bellezza e tridimensionalità.

Gonzalo utilizza il carboncino in tutte le sue forme, in diverse consistenze e tonalità: polvere, matite, gessi e bastoncini ed il suo inizio risale ai tempi dell’università a New York, quando  la sua leggerezza e il costo irrisorio del materiale gli consentivano di lavorare ovunque e a lungo, affinando nel tempo la tecnica  fino a  creare prospettive e studi architettonici davvero stupefacenti soprattutto per la cura dei dettagli. Il bianco che deriva dall’utilizzo del charcoal si ottiene sia con l’uso di un eraser -gomma per cancellare- di diverse misure e forme a seconda dell’effetto desiderato, sia mediante l’uso del bianco ottico del foglio, applicando un apposito film direttamente sul foglio che isola la superficie dal carboncino che, essendo estremamente volatile rischierebbe di ricoprire tutto. Nella purezza del bianco e nero gli occhi e la mente dell’osservatore indagano l’opera così com’è, senza fronzoli o finzioni accessorie. È interessante capire il senso di questi due colori: se si chiedesse ad un fisico che cosa sono il bianco e il nero risponderebbe probabilmente che il bianco è la sommati tutti i colori mentre il nero ne è la totale assenza; la medesima riposta data da un’artista o da un bambino sarebbe invece  l’esatto l’opposto.

I temi trattati da Gonzalo puntano sul senso di immigrazione/appartenenza, e sul tema dell’opulenza e decadenza. “Dovremmo diventare americani trascurando la nostra cultura, parlando americano, mangiando americano o dovremmo rimanere legati alle nostre tradizioni?” Domande lecite che ciascuno di noi immigrati si fa ogni giorno e a cui talvolta è difficile trovare risposta. Gonzalo ha deciso di colmare questo gap tra cultura di origine e cultura ospite attraverso l’arte, trovando nel connubio decadenza/opulenza la risposta a tante domande. Lo ha fatto prendendo come simbolo della suo paese d’origine la banana che rappresenta la terza più grande esportazione agricola al mondo.

La banana è un frutto ricorrente nelle sue opere, è la sua eredità colombiana che vive dentro di lui e che vuole fare conoscere al mondo quel che alla gente non è dato da sapere: gli anni della Violencia,(1927) un tragico periodo storico che ha portato alla morte di milioni di persone per conto del governo colombiano, evocando scene ben distanti dalle favole televisive propinate dai media completamente (o volutamente) ignari di quel che il frutto per eccellenza, mangiato in ogni parte del mondo nasconde.

Il lavoro di Gonzalo può partire da immagini trovate sul web, collages, etc… con le quali poi fa disegni preparatori. Quello che conta per Gonzalo è riuscire a comunicare il messaggio attraverso le sue opere, e lo fa in maniera raffinata con precisione di particolari e prospettive elaborate grazie agli studi fatti in loco con installazioni da lui ideate. Le sue opere tendono a mettere in evidenza il rapporto fra l’opulenza, così effimera e fuggitiva e la decadenza morale che ne deriva e intesa come rottura insanabile tra l’essere umano e il mondo in generale:  la natura in sé, simbolo di purezza di fatto appartenente a tutti ma che diventa egemonia dei pochi che sfruttano le popolazioni con la manodopera. Nelle sue opere le banane piuttosto che gli animali sono rappresentati sotto forma di cuscini o tappeti, mischiano scorci di paesaggi esotici lasciati dedurre dalla presenza delle palme e contestualizzati in ambienti urbani: il divertimento e l’effimero: la stessa immagine che Miami offre di se al mondo. Fra le opere di Gonzalo compare spesso il surrealismo di Magritte, in particolare in “L’uomo con la bombetta” in cui Gonzalo sostituisce la bombetta con la chola boliviana e al posto dell’uccello un cigno, simbolo di bellezza e  grazia.

Discostandosi un pò dal suo genere, nell’opera The Flowers of Treason (I fiori del tradimento) ancora in fase di ultimazione, Gonzalo riesce, con un approccio giocoso della realtà, a rappresentare giovani e aitanti ragazzi e ragazze che fanno sci nautico in compagnia tra sorrisi e divertimento, non curanti del fatto che dietro di loro le fiamme stanno bruciando i loro corpi, le loro vite lasciandoli in balia della caducità del tempo.

The Happy Hour, invece, l’opera esposta al Patricia & Phillip Frost Art Museum, durante la mostra “Deconstruction: A reordering of life, politics and art”, è stata l’opera più grande composta da Gonzalo: 3 pannelli assemblati insieme di 52”x 20” ciascuno:Un’opera mastodontica che ha occupato l’intera parete della sala. Il titolo è evocativo di per se mentre l’opera rappresenta le decorazioni che si trovano sui cocktail che ogni giorno vengono preparati per l’happy hour: frutta esotica fresca e ombrellini decorativi che poi vengono buttati (caducità). Gonzalo li rappresenta sospesi fluttuanti nel vuoto così irraggiungibili e distanti mettendoci faccia a faccia con la nostra natura effimera che pare regalare il paradiso ma che con uno schiocco di dita ci riporta alla cruda realtà, lasciandoci con questo senso di fugacità ed effimero che è insito nel nostro essere umani.

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