L’angoscia ossessivo-compulsiva di Yayoi Kusama fra punti e reti in una corsa contro il tempo, quello materno.

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Appuntamento alle 11:30 per il brunch allestito al The Charcoal Yard, adiacente il cinema con tanti volti noti nell’ambiente dell’arte per celebrare il film documentario di Yayoi Kusama all’O’Cinema di Wynwood, in visione esclusiva per pochi giorni. A seguire un dialogo parallelo più che un’intervista tra Lynn Zelevansky, storico d’arte ed ex direttore del Carnagie Museum of Art, e Dannis Scholl, collezionista, mecenate e CEO di ArtCenter South/Florida.

Documentario toccante di un’anima oppressa da una madre anaffettiva e dai grossi problemi di quest’ultima che si proiettano inevitabilmente su di lei scatenandone una sindrome ossessiva-compulsiva che solo attraverso l’arte è in grado di controllare, nella ripetizione metodica e sistematica di punti e reti che, a cavallo tra estetica pop e immagini di protesta ci regala la sua pazzia.

Questa la definizione breve e concisa di Yayoi Kusama. 

Artista, per troppi anni alienata dalla società artistica della quale voleva disperatamente far parte e che riesce, nonostante la famiglia conservatrice, la seconda guerra mondiale in Giappone e soprattutto la malattia mentale, ad avere la sua rivalsa proiettandosi nel panorama internazionale come una fra le più singolari e famose artiste contemporanee.

Yayoi Kusama nasce a Matsumoto in Giappone nel 1929 da una ricca famiglia conservatrice combinata per questioni di eredità: il padre è totalmente assente e la madre è ossessionata dalle relazioni extraconiugali del marito, sul quale fa vigilare la figlia. Yayoi ne riporterà per sempre le conseguenze arrivando a pensare al suicidio in più di una occasione e ad avere l’avversione per il sesso, questione che sarà esplicitata nelle opere Accumulazioni in cui Kusama ricopre poltrone, divani e pezzi di mobili in tessuto con una molteplicità di protuberanze falliche, sulle quali, con l’installazione Obsession, si farà anche fotografare nuda, tentando di sovvertire il proprio disagio nei confronti del sesso arrivando in questo modo simbolico a dominarlo. 

 

All’età di 10 anni comincia ad avere le prime allucinazioni per le quali trova giovamento e conforto nelle piantagioni di zucca del nonno, dove si abbandona alle più stravaganti visioni che poi fissa su tela facendo della zucca, soprattutto nella sua fase scultorea, uno dei suoi soggetti preferiti e ricorrenti, per la quale sarà riconosciuta. A 13 anni viene mandata a cucire paracaduti per i soldati dell’esercito militare, dote questa che le consentirà di lavorare alle proprie opere con una certa dimestichezza mentre il rumore delle sirene antiaeree e gli orrori della guerra faranno di lei una paladina in difesa della pace e della libertà. Opponendosi alla figura materna, che la vede, come lei stessa, nel ruolo di serva-casalinga, comincia a studiare arte, prima a Matsumoto e poi a Kioto, dove, a discapito delle tecniche occidentali, impara il Nihonga: antica arte tradizionale giapponese prodotta su apposita carta -washi- o seta, con la quale si fanno i rotoli da appendere alle pareti, da srotolare per la letture o da inserire come decorazione nelle  porte scorrevoli.

Nel 1957, dopo aver avuto scambi epistolari con Georgia O’Keeffe e stanca delle vessazioni della madre, decide di lasciare il Giappone per New York, entrando in contatto con un’ambiente artistico prettamente maschile. A fianco degli Infinity Dots, in cui un’insieme di pallini di ogni misura si appiattiscono sui quadri diventando tridimensionali come mille piccoli nuovi pianeti, produce gli Infinity Nets: Una pittura che appare in lontananza sottile, delicata e monocromatica e che se osservata da vicino rivela le complessità del lavoro nel quale il sottofondo, quasi completamente oscurato da piccoli semicerchi che riempiono l’intera tela, viene mostrato solo sotto forma di piccoli punti mentre forme arcuate si curvano tutte nella stessa direzione, creando una rete ondulata che continuerebbe all’infinito se non fosse per il bordo della tela. Donald Judd sarà fra i primi ad acquistare una sua opera, seguito da Frank Stella e Joseph Cornell. Quest’ultimo che si infatua di Yayoi, avrà molta influenza su di lei avendo a sua volta un’avversione riguardo al sesso e le sarà a fianco per lungo tempo al punto che, quando Cornell morirà, Yayoi comincerà a creare collage per far fronte alla sua morte e per onorare il suo lavoro. 

Artista controversa e stravagante, alla costante ricerca di fama per auto-validare la sua esistenza e rivendicare la sua identità, nel corso della sua battaglia contro la malattia mentale, nel 1966, decide di partecipare clandestinamente alla Biennale di Venezia. Con l’aiuto di Lucio Fontana allestisce appena fuori dal padiglione Italia un campo con 1500 sfere di plastica a specchio disposte l’una a fianco all’altra fino a creare un campo riflettente che distorce le immagini della realtà. In mezzo al campo due cartelloni ben visibili: ”Kusama Narcissus Garden”(il giardino dei narcisi di Kusama) e “Your Narcissium for sale” (Il tuo narciso in vendita) e lei, l’artista in chimono dorato che, come un venditore ambulante, vende le palle per due dollari (1200 lire italiane del tempo) mettendo a disposizione dei compratori una sfera in cui potersi riflettere diventando così parte di un piccolo pianeta che entra a far parte di una nuova costellazione. Secondo Danielle Shang, critica d’arte:” L’atteggiamento di Kusama e il suo lavoro è da interpretarsi sia come auto-promozione di Kusama che come protesta alla commercializzazione dell’arte”. La stessa cosa, tra protesta politica-sociale e autopromozione succede con la performance Anatomic Explosion on Wall Street: dove, di fronte alla Borsa di New York, attori nudi si muovono al suono dei bongo mentre Kusama fungendo da sacerdotessa, dipinge cerchi blu sui corpi dei ballerini richiamando l’attenzione della polizia.

Oltre ai dipinti ripetitivi che danno sensazioni di vertigine e ipnosi, e alle sculture morbide Kusama produce le Infinity Mirror Rooms: installazioni di luci in ambienti interamente  rivestiti di specchi in cui le luci si riflettono creando l’illusione di uno spazio infinito. L’accesso è consentito ad un solo visitatore alla volta che, sperimentando l’installazione diventa parte integrante del lavoro dell’artista, del suo cosmo. 

Dopo una periodo nel quale, la famigliarità con i combattimenti personali e sociali la portano ad unirsi a differenti movimenti culturali, tra i quali la cultura hippy e il movimento femminista, Yayoi Kusama, consapevole del proprio malessere psichico, decide di tornare in Giappone ed entrare volontariamente, nel 1977, allo Seiwa, un ospedale psichiatrico nel quale vive e lavora all’oggi e dove ha già completato più di 500 opere, con un lavoro finito ogni due/tre giorni. La velocità nella produzione delle opere di Yayoi ha origine dall’avversione della mamma al suo interessa artistico: doveva completare i lavori prima che la madre se ne accorgesse e li eliminasse.

 

La svolta definitiva e l’auto proclamazione come artista contemporanea avviene nel 1993, anno in cui, con la presenza costante del suo psichiatra è invitata, in un’esposizione dedicata, a rappresentare il Giappone alla 45ma Biennale di Venezia. Le opere presentate includono dipinti, oggetti tridimensionali ed eventi che coprono un periodo di oltre 30 anni: dai primi anni sessanta a New York fino ai primi anni ’90 ed hanno lo scopo di fornire una comprensione della qualità complessiva dell’arte di Kusama. Paradossalmente la Biennale di Venezia segna per lei sia l’inizio della sua arte per certi aspetti provocatoria, della quale beneficeranno Oldenburg, nelle sue opere in iniziali, e Warhol, traendo spunto dal suo uso della carta da parati e dal modo di trattare la ripetizione di una stessa immagine come espediente decorativo e assertivo, sia la fine della sua ricerca costante di essere parte del mondo dell’arte del XX secolo, con un’interesse rinnovato non solo per la sua arte ma anche per la sua persona, come dimostra il suo stesso ingresso nella scuderia del potente gallerista Larry Gagosian. 

E se nel 1966 in poche ore fu cacciata dalla Biennale di Venezia, nella proliferazione delle luci, nelle forme minacciose e giocose così come nei suoi polka dots e nets e nelle infinite stanze dagli infiniti specchi, dal 1993 raccoglie consensi planetari tra cui l’ambito Premio Imperiale, del 2006: premio giapponese per la cultura consegnato annualmente a livello mondiale dalla Japan Art Association in memoria di Sua Maestà Imperiale il principe Takamatsu ai più grandi esponenti del mondo dell’arte di cui lei è oramai parte.

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